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venerdì 22 maggio 2020

L'OVALE NERO - racconto di fantascienza

di Francesco Manetti


Quando la crosta del Pianeta non si era ancora solidificata e lave color arancione ondeggiavano semifluide schizzando dalla fascia equatoriale colossali gocce in orbita, un oggetto nero, lucido e di forma ovale, grande quanto una piccola luna, veniva attirato dalla scarsa, ma pur sempre apprezzabile gravità del mondo nascente. Non aveva la "cosa" né insegne, né colori che potessero dichiararne la provenienza; niente sulla sua inattaccabile superficie poteva far pensare a quanto fosse antico... La totale assenza di portelli, oblò, scanalature, giunzioni, razzi, ali o antenne faceva sembrare quel bolide un sasso di fiume, tanto perfettamente levigato dalla corrente nel corso dei secoli da far dubitare che la sua forma potesse essere data solo dal caso.
A differenza di un ciottolo trovato nel greto di un torrente, l'oggetto scuro era artificiale, l'espressione di una cultura la cui fine era tanto lontana nel tempo quanto nello spazio. Il viaggiatore era la summa delle conoscenze della civiltà che lo aveva costruito; la sua messa a punto aveva richiesto il lavoro e lo studio di migliaia di esseri, attraverso venti delle loro generazioni. Poi, con uno scopo ben preciso, inciso nelle sue memorie quasi-biologiche, l'oggetto si era staccato dall'immenso cantiere spaziale geostazionario in cui era stato assemblato e la sua ricerca era partita.
Adesso l'ovale d'ardesia aveva finalmente trovato il luogo ideale per cominciare il suo lavoro e aveva iniziato a ronzare. Seguendo un flusso magnetico, un'enorme massa di roccia fusa si staccò dalla superficie ribollente del Pianeta e si incolonnò verso la "nave" in orbita. Questa si tuffò nel magma scomparendovi all'interno per diventare il nucleo attorno al quale quel materiale ad altissima temperatura si sarebbe raffreddato e solidificato.
Il titanico agglomerato di pietra ruotava, diventando sempre meno liquido nel gelo dello spazio e assumendo una forma sempre più vicina a quella della sfera. Ruotava e modificava il moto del giovane globo sottostante.




Con il trascorrere delle ère il Pianeta si era indurito e un satellite naturale, sfigurato dagli innumerevoli impatti meteoritici, vi ruotava intorno. Ampie zone di verde ed enormi distese di acqua ricoprivano quel mondo; in perenne lotta contro la Natura si ergevano immense megalopoli, nelle quali viveva circa la metà di tutti gli individui dell'unica specie animale intelligente, variegata nelle razze e nelle culture. Quelle etnie così diverse fra loro, incompatibili addirittura, avevano vissuto tempi terribili, segnati dall'inquinamento ambientale, dalla sovrapproduzione industriale, dal dominio del danaro e da guerre infinite. Ogni tipo di progresso - scientifico, culturale, spirituale - rimase bloccato per interminabili periodi. Gli scontri, alla fine terminarono, e quella terra viveva da qualche secolo una stupenda Età dell'Oro, dove il benessere e l'istruzione erano doni diffusi a un livello capillare fra gli abitanti. Quella specie si era così potuta dedicare all'esplorazione del cosmo, attraverso raffinati strumenti ottici e radiotelescopi montati sulle cime di altissime montagne.
Il direttore del più grande di questi centri di osservazione celeste, una mattina di buon'ora telefonò al più qualificato dei suoi radioastronomi, svegliandolo:
"...mmmh... Pronto, chi è?... Cosa succede...?"
"Sono il direttore. Vieni qui al più presto, perché sembra che ci sia un problema", e riappende.
"Educato e chiaro come sempre!", mormorò lo scienziato. Poi si alzò per prepararsi un buon caffè, fatto con i fondi di quello del mattino precedente, come aveva visto in un vecchio film sulla vita di uno scalcinato detective e per l'ennesima volta si trovò a chiedersi se questa pratica mattutina di "riciclaggio" l'avesse inventata lui o quella pellicola.
Dopo una decina di minuti lo specialista si ritrovava già in auto, lanciato con calma sulla via dell'osservatorio. Non ci avrebbe messo meno di due ore a salire lassù dalla città dove abitava. La strada di montagna, abbastanza impegnativa, gli avrebbe fatto scordare che quella notte aveva dormito solo quattro ore e la notte prima, pur avendo passato dieci ore a letto, non poteva affermare di aver dormito. Sperava solo che il "problema" si sarebbe sgonfiato in fretta o che addirittura non ci fosse un vero problema, ma solo un nuovo attacco di ipocondria allarmistica del direttore.



Arrivato sull'altopiano dove era installato il centro, lo scienziato si precipitò lentamente verso l'ufficio del Gran Capo, per sentire cosa diavolo l'avesse portato a interrompergli il bellissimo - ed eccitante - sogno che stava vivendo.
"Siediti. I dati arrivati ed elaborati stanotte lo hanno confermato, purtroppo", disse cupo il direttore al giovane studioso, senza alzare gli occhi incorniciati da uno spesso paio di lenti dai fogli che straripavano dalla scrivania.
"Confermato cosa? Caso mai se lo fosse scordato, ero in ferie e..." 
"Si sta dirigendo qua e quel bastardo è grande la metà della nostra luna", lo interruppe bruscamente il direttore.
Per un attimo il giovane rimase incredulo, senza riuscire a pronunciare una sola parola. Poi, cercando di mantenere la calma, afferrò la cravatta verde e gialla del direttore e la tirò a sé finché i volti dei due non si trovarono a pochi centimetri l'uno dall'altro.
"Stai forse cercando di darmi a bere che, come nel più squallido dei film di fantascienza, un grosso e cattivo meteorite sta per distruggere il nostro bel pianeta?". Per la prima volta da quando lavorava al Centro aveva dato del "tu" al suo direttore.
"Calma, ragazzo! Anche se la mia cravatta non è la più elegante che mia moglie poteva regalarmi per il mio compleanno, è scortese farmelo capire così. Comunque, questo non è cinema, è la realtà."
La parola si sollevò nella stanza e ricadde come un macigno addosso ai due. Il direttore si rimise a sedere, mentre l'altro si alzò e cominciò a coprire la stanza in lungo e in largo con ampi passi.
"Ci deve essere una soluzione, una via d'uscita. Non posso crederci: dover morire perché uno stupido planetoide, in tutta la vastità dell'universo, va a sbattere proprio qua. Quando dovrebbe arrivare, l'intruso, secondo i calcoli?"
"Fra 483 anni, 105 giorni, dieci ore, 24 minuti e 38 secondi, circa", snocciolò il Capo, accomodandosi con l'indice la montatura degli occhiali sul naso.
"COSAA?! Osi svegliarmi alle 6 del mattino per dirmi che il mondo finirà fra CINQUECENTO ANNI?! A quell'epoca non saranno più vivi nemmeno i nipoti dei nipoti dei miei nipoti, e tu vieni a buttar giù dal letto ME, OGGI e, per giunta QUASI IN PIENA NOTTE?! E poi, come cavolo sei riuscito a calcolare con sicurezza un così lontano momento d'impatto, fino al secondo? Non so cosa mi trattenga dal mandare te e tutta questa baracca a farvi..."



"Non sono stato io a fare quei calcoli. Sono apparsi stamane sugli schermi dei nostri computer e ho subito contattato gli altri miei colleghi. Ogni osservatorio del mondo è stato interessato dallo stesso fenomeno. Abbiamo cercato di confermare i dati interrogando i calcolatori del Comando Militare, quelli con maggiore potenza di calcolo, e pare che un piccolo pianeta errante per adesso molto distante, potrebbe entrare nel nostro sistema solare in un periodo variabile fra i 300 e i 600 anni. Più tardi sugli schermi degli elaboratori è arrivato un messaggio in una lingua che si avvicina alla nostra, che, coma sai, è parlata dalla maggior parte degli abitanti del globo. Chiunque lo abbia mandato dice di trovarsi CON la luna da ben cinque miliardi di anni. Il messaggio spiega che dobbiamo iniziare immediatamente a operare per rimediare alla catastrofe che ci colpirà fra quasi mezzo millennio e..."
"L'unica cosa che possiamo fare è scrivere bei libri sull'argomento per i posteri, in modo che costruiscano arche o qualcosa del genere per andarsi a trovare un posticino più tranquillo, magari in un'altra galassia", lo interruppe l'altro, con velenoso sarcasmo.
Proprio in quel momento gli venne a mancare la terra sotto ai piedi e si ritrovò sdraiato sul pavimento con la testa ammaccata. Il direttore era invece rimasto a sedere, aggrappandosi alla scrivania.
"Non mi hai fatto finire di dire che l'autore del messaggio parlava anche di una dimostrazione su scala mondiale della sua potenza, in modo da convincerci a darci da fare subito".
Dopo aver detto questo il direttore dell'osservatorio astronomico accese la televisione. Tutti i programmi mostravano giornalisti affannati e sconvolti. La notizia sulla bocca di tutti era una sola, diffusa da tutte le stazioni.
"Incredibile! Un'onda sismica di media intensità ha fatto il giro del globo in pochi secondi! Limitati i danni alle persone e alle cose, ma non si capisce come...". Il giovane spense l'apparecchio, interrompendo il discorso dello speaker. Era come risvegliarsi in un manicomio. Qualcosa di intelligente e di antichissimo lanciava dalla luna esortazioni, minacce e prove di forza.
Un ronzio elettronico attrasse l'attenzione dei due astronomi verso la stampante del computer. Si era azionata da sola e andò avanti per parecchio tempo, riempiendo di grafici, disegni e cifre fogli su fogli. Per finire, un nuovo messaggio. Il direttore prese l'ultimo pezzo di carta uscito dalla macchina e lesse, a voce alta.
"Questa è solo la prima parte delle istruzioni che dovrete eseguire prima dell'arrivo del planetoide. Vi occorreranno circa dieci anni per riuscire ad attuarle, allo stato della vostra tecnologia. Mettete in campo i vostri maggiori esperti e non lesinate le risorse. Quando avrete terminato questo primo passo mi farò sentire di nuovo".
Il giovane scienziato uscì in silenzio dall'ufficio. Sarebbe tornato a casa e si sarebbe di nuovo messo a letto. Almeno per lui quei dieci anni sarebbero iniziati una paio di giorni dopo.



Da quel momento, esattamente ogni decennio arrivarono le istruzioni dall'entità della luna. Schiere di astrocarpentieri le misero in pratica seguendole alla lettera per secoli.
Quando mancavano pochi anni all'arrivo del planetoide, ormai già visibile a occhio nudo, fu completato quello a cui in tanti avevano lavorato usando ogni risorsa economica e ambientale del Pianeta, per numerose generazioni: uno sconfinato oggetto nero, lucido, di forma ovale, perfetto, pieno fino all'inverosimile di macchinari incomprensibili.
Pochi mesi prima della fine l'oggetto nero parlò, con una voce asessuata, attraverso ogni apparecchio che sul Pianeta fosse in grado di riceverlo e di ritrasmetterlo.
Forse la gente, che per quasi cinque secoli aveva speso ogni sua forza per obbedire a quegli ordini così perentori, avrebbe voluto sentire qualcosa di diverso; forse sognavano che l'oggetto lassù si aprisse per accogliergli tutti nel proprio grembo e portarli lontani dall'imminente distruzione totale. Ma il discorso fu un altro, inaspettato.
"Abitanti di questo pianeta! Per circa 500 rivoluzioni solari la vostra specie si è dedicata quasi esclusivamente alla mia costruzione, e moltitudini intere sono morte senza averne mai saputo il perché. Ormai è giunto il momento di svelare il mio scopo.
"Prigioniero nel cuore della vostra luna, fuso irrimediabilmente in essa, ma ancora attivo, esiste un oggetto in tutto e per tutto uguale a me. Fu terminato di costruire 6 miliardi di anni fa, quando l'universo era più giovane di adesso. L'antica specie che lo aveva creato scomparve poco dopo che l'ovale era partito dal loro pianeta, polverizzato con tutti i suoi abitanti dall'esplosione del loro sole.
"Quella gente, proprio come voi, aveva dedicato i suoi ultimi secoli della loro esistenza alla realizzazione di un progetto imposto loro da un ovale identico a me e al mio predecessore, sepolto da miliardi di anni nella loro luna.
"Come era successo miliardi di anni prima a un altro pianeta in un'altra galassia, copie dei DNA di tutte le razze, di tutte le specie animali e di tutte le specie vegetali di quel mondo furono immagazzinate nelle memorie dell'ovale nero. Quello era il loro lascito. Il testamento di un INTERO pianeta. Una promessa di rinascita. Il mio predecessore, come aveva fatto il suo predecessore, viaggiò per eoni fra le galassie, alla ricerca di un pianeta in formazione che potesse ospitare con efficacia quel nobile retaggio genetico. Inseminò di vita quel mondo, altrimenti sterile. VOI eravate gli ultimi discendenti della specie primordiale, e per milioni di anni vi siete evoluti su questo globo, modellato sulla falsariga del pianeta primordiale. Oggi il destino impone un nuovo inizio alla vostra specie. Le mie banche dati stanno già copiando i vostri DNA e quelli di tutte le forme di vita presenti su questo mondo. Presto mi metterò in viaggio."

Quando l'ovale partì, un mese prima dell'arrivo del planetoide assassino, lasciando l'orbita di un mondo morente devastato da tempeste, terremoti, colassi magnetici e gravitazionali, non ci fu nessun festeggiamento. Non ci fu nessuna commemorazione. Niente di niente.

Non c'era più nessuno su TERRA DECIMA.


Francesco Manetti

sabato 12 gennaio 2013

IL FANTASMA DELL'ANFITEATRO: LA TERZA AVVENTURA DI LAPO & BALDO, RAGAZZINI MEDIEVALI!

di Francesco Manetti

Dopo la prima e la seconda avventura di Lapo & Baldo, due ragazzini che risolvono misteri nella Firenze medievali, eccovi ora il terzo - e per ora ultimo - episodio (che sembra quasi uno scarto di soggetto per Scooby-Doo)! Scrissi questi tre raccontini nella prima metà degli anni Novanta, per una serie di libriccini illustrati per bambini dai 9 agli 11 anni - serie che purtroppo non partì mai... Il primo lo pubblicai sulle note di Facebook; il secondo e il terzo sono rimasti assolutamente inediti, fino all'apparizione sul mio blog Ultimo Istante. Buona lettura. (F. M.)


 


Le avventure di Lapo & Baldo, ragazzi medievali - 3a parte
IL FANTASMA DELL'ANFITEATRO 

"Quando Firenze si chiamava ancora Florentia", spiega il maestro Brunetto Cavalcanti alla scolaresca di cui fanno parte anche Lapo e Baldo, "esistevano molti edifici oggi scomparsi. Tra questi lo stupendo anfiteatro romano capace di ventimila posti: se ne può fare ancora il giro percorrendo quelle viuzze curve subito dietro Porta della Pera. La leggenda vuole che il fantasma dell'ignoto architetto che lo progettò circa 1200 anni fa vaghi ancora nei sotterranei delle case che oggi coprono la sua opera. Da qualche mese molti degli abitanti della zona sono fuggiti spaventati da grida disumane e terrificanti che vengono dal sottosuolo soprattutto di notte. Bene, anche per oggi la lezione è finita. Ci vediamo domani".

Per strada Lapo e Baldo commentano quanto udito in classe.
"Che ne dici, Lapo: ci andiamo oggi pomeriggio a vedere dalle parti di Via Torta? Forse abbiamo la fortuna d'incontrare lo spettro!"
"Sì, sarebbe emozionante, ma dobbiamo stare attenti a non farci sorprendere dal buio, non tanto per il fantasma, quanto per la ronda delle guardie. Lo sai cosa capita a chi non rispetta il coprifuoco..."
"Non ti preoccupare, non faremo tardi. Ci vediamo dopo pranzo a casa mia".
"A più tardi, allora".

Qualche ora dopo i due amici sono già a osservare le curve pareti delle case edificate sull'antico perimetro dell'anfiteatro. Le abitazioni abbandonate conferiscono al posto un'aria tetra. Il silenzio è palpabile e solo degli occasionali rumori di stoviglie confermano che qualcuno più coraggioso degli altri non se ne è ancora andato.
"Brrr... da quando siamo arrivati mi si è accapponata la pelle. Eppure non fa freddo", dice Lapo.
"Ho i brividi anch'io, ma mi consolo pensando a come ci invidieranno i nostri compagni quando sapranno che siamo stati qui. Cominciamo da là!"
Baldo indica quello che fino a pochi mesi prima era stato l'ingresso di un fiorente negozio di fabbro. I due entrano in punta di piedi in quei locali anneriti dal fumo camminando sui pavimenti coperti di fuliggine.





"Che tristezza, Lapo. Quel pover'uomo se ne è andato così in fretta che non si è potuto portar dietro tutti i suoi attrezzi. Guarda qua: un martello, due pinze, un attizzatoio... E non ha nemmeno chiuso a chiave la bottega".
"Sarà meglio farlo noi. Non vorrei che qualcuno, passando, ci vedesse e ci scambiasse per ladruncoli.", dice Lapo chiudendo il portone.
"OOOOOOOOOOOOOOUUUUUUUUUUUUUUU!", un grido che sembra provenire dall'Inferno fa sobbalzare i ragazzi.
"C-cosa è s-stato?"
"N-non lo so, L-Lapo. V-veniva da s-sottoterra!"
"AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAUUUUUUUUUU!"
"San Giovanni aiutami tu! E' il fantasma! E stavolta il grido era più vicino. Sta venendo quassù!"
"Presto! Diamocela a gambe!"
"Accidenti! La serratura si è bloccata! Che facciamo?"
"Non c'è un secondo da perdere! Infiliamoci là!"





E in men che non si dica Lapo e Baldo trovano rifugio in un pesante armadio di noce. Sbirciando dagli interstizi delle assi che compongono il mobile i due vedono apparire un essere ammantato di bianco che porta un calderone. Lo spettro aggancia la pentola nella fornace del fabbro e accende il fuoco.
"Che sta facendo?" si domanda sottovoce Lapo "da quando in qua i fantasmi hanno bisogno di cucinarsi la cena?"
"Ma che dici... quell'attrezzatura serve per fondere i metalli... ma è la prima volta che sento parlare di un spirito con il passatempo del fabbro."
"Ehi, ora che è tutto intento nel suo lavoro, che ne diresti di provare di nuovo ad aprire quella porta? Mica possiamo star qui dentro tutta la vita."
"Vabbè, usciamo."
Quatti quatti i ragazzi scivolano fuori dall'armadio e si dirigono verso la porta. I loro sforzi sono inutili: nemmeno tirando in due riescono ad aver ragione del chiavistello. Lo spettro, intanto, sembra aver finito di preparare la fornace. Proprio in quel momento i ragazzi notano una botola aperta e delle scale che scendono nei sotterranei. Senza esitare si lanciano giù e si trovano di fronte a uno spettacolo incredibile. Una decina di torce illuminano degli ampi soffitti a volta e delle gradinate.





"Guarda, Lapo! L'anfiteatro romano esiste ancora sotto le case moderne. Vedi quelle colonne? Reggono il peso delle nuove costruzioni."
"Davvero stupendo! E qua cosa c'è?"
In un angolo tre barili pieni di soldi brillano alla luce tremolante delle torce.
"Santo cielo! Sono fiorini d'oro! Saranno centinaia di migliaia! Ci potresti comprare tutta Firenze!"
"Non credo, Lapo", dice Baldo avvicinandosi a un tavolo di legno, "vedi queste barre di metallo vile accanto ai lingotti d'oro? Servono per fabbricare una lega pesante come l'oro e con lo stesso aspetto ma di valore molto inferiore. E questi stampi...? Siamo capitati nel covo di un falsario, altro che spettro! Con quella mascherata teneva lontani i curiosi dai suoi loschi affari."
"OOOOOOOOOOOOOOUUUUUUUUUUUUUU! CHI OSAAAAAAAAA?"
"Presto, appena scende tiriamogli addosso un paio di questi!" dice Baldo, lanciando a Lapo uno dei pesanti lingotti d'oro."
Il finto fantasma non fa in tempo ad accorgersi di cosa succede che due mattoni dorati lo centrano in fronte.
"Bene! Mi sembra sistemato! Vieni, Baldo: leghiamolo a una colonna con questa corda e poi andiamo a chiamare i bargellini. Sapranno loro come trattarlo".





Poco dopo il furfante viene portato via in catene dai poliziotti del Bargello. Il capitano si congratula con Lapo e Baldo.
"Bravi ragazzi! Da tempo avevamo notato che circolavano dei fiorini contraffatti, ma non ci immaginavamo certo che il falsario era lo spettro dell'anfiteatro! Come ricompensa vi spettano cinque monete d'oro a testa".
"Vere, vogliamo sperare", dice Lapo.
"Appena sfornate dalla zecca", dice il capitano, consegnando ai giovani investigatori un tintinnante borsello di cuoio ciascuno.


Ecco cosa c'è di vero nell'avventura che avete appena letto: il perimetro dell'anfiteatro romano si nota ancora a Firenze, nelle vie presso Santa Croce; i falsari esistevano anche allora e venivano puniti col rogo. Il resto è tutta fantasia.

Francesco Manetti

giovedì 6 dicembre 2012

LA STATUA DI MARTE: UNA NUOVA AVVENTURA DI LAPO & BALDO, RAGAZZI MEDIEVALI

di Francesco Manetti

Dopo la prima avventura di Lapo & Baldo, ragazzini della Firenze medievale, eccovi la seconda, anche questa scritta verso la metà degli anni Novanta per un'ipotetica serie di libretti illustrati per bambini... serie, ça va sans dire, mai partita! (F. M.)
 

Le avventure di Lapo e Baldo, ragazzi medievali - 2a parte
LA STATUA DI MARTE

Ai primi del '300 l'imboccatura del Ponte Vecchio a Firenze era sorvegliata da una statua romana che raffigurava il dio della guerra Marte. E' proprio di lì che si trovano a passare un pomeriggio di una giornata nuvolosa Lapo e Baldo, amici per la pelle.





"Dì, Lapo, non ti resta antipatico quel brutto muso?" 
"Come no! Alcuni sono sicuri che porti sfortuna... lo sostiene anche Dante, il poeta. Lui afferma che la statua ha influssi nefasti su Firenze. Si sa che nella mala Pasqua del 1216 Buondelmonte fu ammazzato ai suoi piedi: è da allora che le due fazioni, i Guelfi e i Ghibellini, sono venute ai ferri corti." 
"Maledetta statua, ti odio!", dice Baldo sferrando un possente calcio alla scultura.
Immediatamente si mette in moto un meccanismo e il basamento si apre. "Cavolo! L'hai rovinata! Scappiamo, altrimenti ci mettono dentro!" 
"Calma, Lapo. Non hai sentito quel rumore? La lastra del piedistallo si è spostata da sola. Il basamento è cavo e dentro c'è qualcosa...", ed estrae un piccolo scrigno che contiene due ampolline, una blu e una rossa, e un rotolo di carta pergamena legato con una cordicella. Baldo lo apre e legge. 
"Guai a coloro che richiameranno il berserker che nel corpo del feroce Attila fu distruttore di Firenze. Per colui che stroncava le vite la sostanza di morte nel vetro rosso sarà fonte di vita; per colui così lontano dalla purezza la sostanza di vita nel vetro blu sarà causa di morte. Io, Guidobrando negromante, nell'anno del Signore 1025 ne racchiusi lo spirito in questa pietra dall'Unno precipitata in Arno e dall'Imperatore Carlo Magno ritrovata. Che diavolo significa?"




 
"Fammi vedere!" 
"Ehi! Stai attento! Mi fai cadere tutto..." 
La scatola e la pergamena scivolano via dalle mani di Baldo andando a sbattere sul basamento della statua. L'ampolla rossa si spacca e una brodaglia verde va a bagnare i piedi di Marte. 
"Accidenti, Lapo! Guarda che pasticcio: il liquido ha inzuppato la carta, sciogliendola. Era la prova che Attila aveva distrutto davvero Firenze e..." 
Un terribile urlo fa trasalire i due giovani. 
"UUUAAARRRRGH! CHI OSA DISTURBARE IL SONNO DEL BERSERKER?" 
La statua di Marte ha preso vita! Il volto del mostro ha assunto un'espressione demoniaca, carica di follia e di violenza. 
"SIETE STATI VOI MINUSCOLI MORTALI A RICHIAMARE IL BERSERKER? RISPONDETE, SE VI E' CARA LA VITA!" 
"Andiamo", fa Lapo, scotendo l'amico paralizzato dal terrore.
I due raccolgono la scatola e l'ampolla blu e scappano verso Via Por Santa Maria.





"FERMATEVI, DANNATI, O VI ANNIENTO!", grida l'incredibile statua vivente scendendo dal basamento.
Intanto, attirati dal clamore, si erano fatti vivi tre poliziotti del Bargello, armati di picche e di spade. 
"Non muovere un altro passo, mostro sputato dall'Inferno. In nome del podestà ti dichiaro in arresto", recita uno dei bargellini. 
Ma l'essere non sembra temerli: due vengono scaraventati contro un muro e l'altro va a finire in Arno. Dopo che si è liberato di quelli che per lui erano solo fastidiosi moscerini, il simulacro di Marte si incammina verso il centro della città, all'inseguimento dei ragazzi. Il suo passo è lento ma inesorabile; la gente fugge urlando appena lo vede; qualcuno sviene. Il mostro non ha pietà: schiaccia e calpesta chiunque trovi sulla sua strada. Il cielo si fa sempre più scuro; le nuvole nere cariche di pioggia e i fulmini disegnano un inquietante gioco di luci e di ombre sulla tremenda faccia di pietra.





Lapo e Baldo si sono rifugiati in un vicolo a riflettere sull'accaduto. 
"A quanto pare quel mago, Guidobrando, è riuscito a imprigionare nella statua di Marte, ripescata dal fiume da Carlo Magno, uno spirito malvagio che aveva impossessato anche Attila. Il liquido dell'ampolla rossa, forse un veleno, ha risvegliato questo demonio che ora semina il terrore per le vie di Firenze. La pergamena diceva che la sostanza nella bottiglietta blu l'avrebbe ucciso. Così.." 
"Così... non resta che lanciargliela addosso!", conclude Baldo. 
"UUUUAARRRRGH! VENITE FUORI, VERMI!" 
"Ci siamo... Fai tu, Baldo. Non sbagliare mira o siamo perduti!" 
I giovani escono allo scoperto, a pochi passi dall'essere. 
"E' GIUNTA LA VOSTRA ORA, MALEDETTI!", grida il demonio. 
"Vai, Baldo!" 
La bottiglietta compie una parabola in aria diretta verso la testa della scultura, ma il mostro, all'ultimo istante, riesce a schivarla. 
"AH AH AH! STAVOLTA LA MAGIA DI GUIDOBRANDO NON HA FUNZIONATO, MOCCIOSI! E SARETE VOI A PAGARNE LE CONSEGUENZE!"





I ragazzi non hanno scampo: con le spalle al muro attendono la loro fine. "E comincia anche a piovere!", commenta Lapo con amara ironia. 
Come d'incanto la creatura si irrigidisce lanciando sinistri scricchiolii. La sua pelle di pietra si ricopre di screpolature. Poi l'effigie di Marte torna quella di prima, com'era stata da sempre.
Altri bargellini hanno intanto raggiunto Lapo e Baldo. 
"Tutto bene, ragazzi?" 
"Sì, ma c'è mancato davvero poco" 
Mentre le guardie sollevano la statua per riportarla all'antico basamento i due amici si avviano verso casa passando dai Lungarni. 
"Che ne dici, Lapo?" 
"Penso che sia stato merito dell'acqua. Ricordi la pergamena? Per colui così lontano dalla purezza la sostanza di vita nel vetro blu sarà causa di morte, e cosa c'è di più puro e vitale dell'acqua? La pioggia lo ha fatto tornare nell'oblio. Speriamo per l'eternità". 
"E dello scrigno che ne facciamo?" 
"Dallo a me!"
E lo getta nel fiume.

FINE
 



Addenda

Ecco quanto c'è di vero nella storia di Lapo e Baldo: la statua posta all'imboccatura del Ponte Vecchio fu travolta dalla piena del 1333 (forse non era di Marte ma di un re Goto); Dante, che fu priore della città, credeva che portasse sfortuna; Buondelmonte dei Buondelmonti fu ucciso da Oddo Arrighi fra il Ponte Vecchio e Por Santa Maria; il fatto della distruzione di Firenze da parte di Attila (così come della ricostruzione per opera di Carlo Magno) è una leggenda; i bargellini erano i "poliziotti" della città e la loro "centrale" era il Palazzo del Bargello, sede del Podestà. Il resto è tutta fantasia!
Un'ultima curiosità: il berserker, nella mitologia nordica, è un guerriero impossessato da uno spirito malvagio e distruttore.

Francesco Manetti

giovedì 29 novembre 2012

L'OGGETTO MISTERIOSO: UN'AVVENTURA DI LAPO & BALDO, RAGAZZI MEDIEVALI

di Francesco Manetti


Vi propongo un raccontino, il pilota di una serie di avventure per ragazzi che non è mai partita. Lo scrissi nella seconda metà degli anni '90 (a leggerlo oggi è sicuramente un po' troppo "ottimista"). Prima d'ora l'avevo pubblicato solo su un mio artigianale sito web, Comicsandpolitik, ora caduto in disuso, e nelle note della mia pagina Facebook. (F.M.)



Le avventure di Lapo e Baldo, ragazzi medievali
L'OGGETTO MISTERIOSO 

Un branco di antilopi, come tutte le notti, dorme nei pressi del grande corso d'acqua, che a tratti si allarga formando acquitrini e paludi. Un maschio adulto, agile e robusto, monta di guardia contro i predatori. D'un tratto l'animale drizza le orecchie e alza lo sguardo al cielo, con un'espressione di terrore negli occhi. Una palla di fuoco sta piombando giù dalle stelle a velocità folle. Un poderoso grido di allarme e le bestie si scuotono dal torpore per allontanarsi a grandi balzi. La sfera ardente precipita a terra con un boato scavando un cratere e sollevando un'immane nube di polvere. Poi torna il silenzio e le creature della vallata pian piano si acquietano.





Un milione di anni dopo sorge in quel luogo la ricca città di Firenze, importante tappa per le centinaia di migliaia di pellegrini che da tutta Europa si recano a Roma per celebrare il primo Giubileo. Fa già caldo in quel pomeriggio di fine marzo del 1300 quando Lapo e Baldo, due amici e figli di benestanti commercianti in stoffe, stanno attraversando il ponte di Santa Trinita per andare in Oltrarno a vedere i lavori di costruzione delle nuove mura.
"Uffa, Lapo, essere giovani in questa città sta diventando sempre più uggioso. Gli adulti non pensano ad altro che alla politica. Guelfi e ghibellini, bianchi e neri: chi ci capisce più niente?"
"Davvero! Oppure si danno da fare per organizzare il pellegrinaggio. Ora va di moda la scusa dell'indulgenza plenaria promessa dal Santissimo Padre Bonifacio a tutti quelli che vanno a visitare le chiese dei Santi Pietro e Paolo a Roma."
"Sì, bella penitenza. Il tutto si risolve in quindici giorni di mangiate e bevute nelle hostarie dell'Urbe. Noi invece dobbiamo restare qua, tutte le mattine a scuola. Oggi si legge, domani si studia l'abbaco, poi si rilegge e si ristudia l'abbaco. E tutto a memoria, sennò son bacchettate. E..."





"Baldo! Guarda là!"
"Uh... cosa?"
"Là, in riva all'Arno, dove i garzoni dei carpentieri scavano il materiale per le mura"
"Sì... e allora?"
"Non vedi qualcosa che brilla?"
"Uhm... No, non mi sembra... Aspetta... Sì! Lo vedo anch'io! Cosa sarà?"
"Non lo so. Scendiamo"
Lapo e Baldo, attratti dal misterioso luccichio, raggiungono l'argine del fiume e vanno giù. In quel momento non c'è nessuno. Gli operai sono andati a portare l'ennesimo carico di terra per il tratto di cinta muraria alle spalle di San Frediano. In fondo a una buca fangosa qualcosa fatto di metallo lancia sinistri bagliori. Aiutato da Baldo, Lapo si cala nello scavo per rimuovere lo sporco che ricopre quasi del tutto lo strano oggetto.
"Ehi, Lapo! Cos'è?"
"Non lo so. E' una sfera metallica lucentissima. Sembra argento, ma non ho mai visto niente di così liscio. E' grande come la palla di stracci che ci ha fatto tuo padre per giocare".
"Ce la fai a sollevarla?"
"Ora ci provo. Mmm... sì, non è molto pesante, poche libbre."
"Passamela, che poi ti tiro su."





Coperta la palla con un fazzoletto i ragazzi decidono di portarla dal loro maestro, Brunetto Cavalcanti, un uomo di scienza dalle larghe vedute con una delle più vaste biblioteche di tutta Firenze: cento libri, fra letteratura, filosofia, medicina, matematica, astrologia, chimica e retorica. Arrivati alla seconda casa di Via Vacchereccia, Lapo bussa a un portone di legno scuro.
"Chi è"?
"Siamo Lapo e Baldo, signor Maestro. Abbiamo da farle vedere una cosa."
"Dovreste essere a casa a ripassare l'algorismo invece che stare a zonzo", risponde una voce mentre scatta il meccanismo della serratura.
"Signor Maestro", dice Baldo, "siamo sicuri che quello che le mostreremo è più interessante di un pomeriggio passato fra i numeri".
Detto ciò Baldo svela la sfera lucente, ancora in parte coperta di fango. Il maestro la prende fra le mani e la rigira meravigliato.
"Venite a prendere una focaccia salata che intanto ripuliamo un po' quest'affare. Dove l'avete trovato?"
"Dalle parti del ponte Santa Trinita", dice Lapo, "sulla riva dell'Arno, dove estraggono la terra per le mura".
"Ah, sì. Sono più di dieci anni che vanno avanti questi benedetti lavori. Ce la faranno a finirli per il prossimo Giubileo?"
L'abitazione del maestro Cavalcanti è situata in una vecchia torre. Le scale e la cucina sono buie, ma lo studio, con le sue due finestre sempre ben pulite, è illuminato ottimamente.





"Uhm... sembra che qui ci sia scritto qualcosa... qualcosa di inciso finemente in questo splendido metallo", dice il maestro mentre spolvera via le incrostazioni terrose dall'oggetto. "Tre lettere e quattro numeri: E, S, A, 2, 0, 6, 5. C'è anche uno strano simbolo... sembra uno stendardo. Un rettangolo con un cerchio di stelle".
"Cosa può essere, signor maestro?", fa Baldo.
"Ancora non lo so. Mi ci vorrà un po' di tempo. Tornate fra qualche ora e vi saprò certamente dire di più".
Dopo esser stati a vedere i lavori per le nuove mura di Firenze, Lapo e Baldo si incamminano di passo svelto verso la casa del Cavalcanti. Sono eccitatissimi. Non stanno più nella pelle per la gran voglia che hanno di conoscere il segreto dell'oggetto misterioso. Giunti in Via Vacchereccia il maestro sta già alla finestra ad attenderli.
"Presto, ragazzi, salite!", grida ansioso.
I due amici si guardano con un'espressione fra il sorpreso e lo sconcertato: cosa può aver turbato così un uomo tutto d'un pezzo qual'è il loro maestro? Divorati dalla curiosità, fanno le scale a tre gradini per volta ed entrano trafelati in casa di Brunetto che sta ad aspettarli seduto vicino al tavolo di cucina su cui ha poggiato lo strano oggetto sferico.
"Ragazzi", dice il maestro "voi certamente sapete come viene comunemente chiamato un miracolo fatto senza invocare il nome d'Iddio..."
"Sì, stregoneria!", risponde Lapo
"Ce l'hanno ripetuto mille volte in Chiesa", aggiunse Baldo "e ci hanno detto che è peccato anche solamente parlarne. Chi si prodiga in questo genere di pratiche finisce male".
"Certo, certo", riprende il Cavalcanti "ma se a fare qualcosa di prodigioso è un oggetto come questo, si può forse parlare di magia nera?"
"Mah... non sappiamo... non crediamo... forse...", balbettano all'unisono i due giovani.
"Prima di tutto: sapete chi è Re Edoardo?", chiede il maestro.
"Certo", risponde Baldo, "è il sovrano di Anglia. Ce l'ha insegnato lei."





"Bene", fa Brunetto ", e sapete anche che la lingua parlata dai sudditi di Edoardo, l'inglese, è diversa dalla nostra che viene dal latino. Vi ho letto qualche pagina originale delle Historie di Arturio e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda alla ricerca del Santissimo Calice, storie che poi vi ho tradotto in fiorentino. Ora vedrete qualcosa di strabiliante e sentirete risuonare frasi pronunciate in un idioma simile a quello di Edoardo. Non abbiate paura: non vi accadrà niente. Dovete però giurare su tutto ciò che avete di più caro che non direte mai niente a nessuno di quanto osserverete qui."
"Lo giuriamo", dichiarano solenni, e un po' divertiti, i due ragazzi.
Il maestro, allora, sfiora l'oggetto nel centro del cerchio stellato e un'incredibile melodia che sembra provenire da un altro mondo si diffonde nella stanza. Poi, sopra la misteriosa scritta forgiata nel metallo, si apre uno sportellino e ne esce quello che sembra un occhio perfettamente rotondo. Ne scaturisce un raggio di luce e sospeso a mezz'aria appare un volto d'uomo. Baldo e Lapo fissano increduli l'immagine bloccati da una sensazione che sta a cavallo fra il terrore e la meraviglia. Il volto inizia a parlare in una lingua bizzarra che assomiglia, come diceva Brunetto, a quella di Edoardo, ma con una tonalità diversa. Mentre la voce continua appare un'altra immagine, una carta geografica dove si riconoscono i confini di Italia, di Hispania, di Franza, dell'Anglia e di tante regioni in parte sconosciute. Il disegno è perfetto e sembra quasi come se qualcuno, per tratteggiarlo, sia salito in cima a una torre altissima oppure sulla schiena di un'aquila (o su un manico di scopa, pensano rabbrividendo i ragazzi).





Sull'immagine appare un vessillo blu recante sopra un cerchio formato da trenta stelline gialle: identico a quello inciso sulla sfera d'argento, ma a colori. Poi la carta geografica si allarga sempre più: ora si vedono i confini d'Africa e poi tanto altro ancora finché non viene un globo ricoperto di mari e di terre che si mette a ruotare. Questo diventa sempre più piccolo e lontano. Appaiono altre nove palle che si mettono a girare attorno a un corpo fiammeggiante. Poi, anche questa immagine si allontana e prende il suo posto un vortice nero d'immane potenza. La sfera argentata vi si precipita dentro.
Si vedono ora enormi costruzioni, strade larghissime dove migliaia di persone camminano strisciando lungo ai muri per lasciar passare carri di metallo velocissimi. Il cielo è azzurro e la gente sembra felice. D'un tratto riprende la melodia iniziale, l'occhio rientra nell'oggetto e poi cala un silenzio di tomba su Lapo, Baldo e il loro insegnante.
"Beh, ragazzi, che ne pensate?"
"Oddio, oddio, oddio...", fa Lapo, senza riuscire a dire altro.
"Maestro! Cos'era quella roba? Cosa diceva la voce?", prorompe Baldo.
"Calma, ragazzi, non c'è niente da temere. Questo oggetto l'abbiamo fatto noi. Viene da Firenze!"
"Da Firenze?", chiede Lapo, che sembra aver ritrovato la parola, "Ma io non ho mai visto niente di simile! E nemmeno ne ho sentito parlare!"
"Certo", dice il maestro, "perché viene da Firenze come sarà soltanto fra 765 anni. Vedete questa cifra incisa qui? E' una data! 2065. A quanto pare i nostri successori contano ancora gli anni secondo il nostro calendario Giuliano".
"Ci sta dicendo che quella sfera viene... dal futuro?"





"Precisamente. Da quello che sono riuscito a capire dello strano dialetto anglio della voce, l'oggetto, chiamato 'sonda spaziale', è stato lanciato in cielo da una 'base' posta a nord di Firenze il 3 agosto 2065. La base apparterrebbe alla ESA che significa 'agenzia spaziale europea'. Lo scopo del lancio era quello di entrare in un 'buco nero' per scoprire cosa c'è aldilà... La voce, la melodia e le immagini sono un messaggio per eventuali 'extraterrestri'..."
"Extra... che?"
"A quanto pare la 'Terra' è il mondo su cui viviamo, ed è molto più grande di quello che crediamo oggi, a forma di palla e vagante nei cieli. Ruota, insieme ad altri 'pianeti' intorno al Sole. Nel 2065 gli uomini della Terra saranno ben 10 miliardi. Gli 'extraterrestri' sarebbero esseri viventi di civiltà non appartenenti a questo mondo, ma ad altri mondi. Tutte quelle meravigliose immagini che abbiamo visto servono a indicare agli extraterrestri, in modo semplice e comprensibile, dove viviamo noi. Quel vortice che avete visto è un buco nero. Per molti sapienti del futuro rappresenta un ponte per altri luoghi. Ci aspetta un domani fantastico, ragazzi!"
"E come ha fatto questa... 'sonda' a tornare indietro nel passato? Cioè, coloro che l'hanno costruita nasceranno fra molti secoli... eppure l'oggetto è qui davanti ai nostri occhi. Come si spiega? E per quanto tempo è rimasta sepolta in riva all'Arno? E poi..."





"Basta, basta... quante domande, figliolo! Ci sono più cose in cielo e in terra di quante possa pensarne la nostra filosofia, Lapo. Tenete: riportate quest'oggetto fantastico nella buca dove l'avete trovato e ricopritelo bene. Oggi abbiamo imparato molte cose che nessuno osa nemmeno sognare. Accontentiamoci e custodiamo nella nostra mente questo segreto. Andate. Ci vediamo domani a lezione".
I due ragazzi salutano il maestro e si dirigono con l'oggetto verso la riva dell'Arno per poterlo restituire all'oblio da cui è giunto. Non dimenticheranno mai l'esperienza vissuta e da oggi guarderanno sotto un'altra ottica il mondo in cui vivono.

FINE

Francesco Manetti

sabato 24 novembre 2012

INCUBO NELLA FORESTA

Un racconto del Comandante Remington

di Francesco Manetti


Premessa

Tanti anni fa, in un'epoca lontana, lontana, avevo scritto una storia con protagonista il Comandante Mark, pensata per essere pubblicata su una ristampa della storica collana bonelliana. Poi non se ne fece più niente e il racconto è rimasto nel mio "cassetto digitale" fino a quando non entrai nella comunità di Facebook e lo misi nelle note. Lì credo che l'abbiano scorso in tredici (più lettori di quelli dei Promessi Sposi, comunque)... Ve lo ripropongo qui, con alcune varianti, soprattutto nei nomi dei personaggi. (F.M.)





1. Un strano risveglio

“Grande Scott! Dove sono?”, gridò il Comandante Remington, svegliandosi nel bel mezzo della foresta, in riva a un tumultuoso torrente.
“Uhm… A quanto pare non mi trovo molto lontano dal quartier generale…”, rifletté Remington, toccandosi la fronte contusa. “La Foresta degli Aceri… al massimo venti miglia a nord di Fort Maple! Questo, infatti, non può essere che il Kingsboro River – anzi, il Rebel’s Creek, come preferiscono chiamarlo i miei Falchi! Il rombo delle sue acque nella stagione autunnale è inconfondibile!”
Poco più in là, con la schiena appoggiata a un tronco secolare un omaccione pesto e lacero giaceva ancora svenuto.
“E questo?”, si chiese Remington, confuso. “Forse è un patriota reduce da uno scontro con cento Giubbe Rosse… o un tagliaborse con il quale sono venuto alle mani… Ma no, perbacco! Si chiama… Ah, se la testa non mi facesse così male, Grande Scott! Ci sono, finalmente! E’ Daniel Buster, uno dei boscaioli scomparsi!”.
E così, pian piano, la memoria di Remington riemerse, tornando ad alcuni giorni prima, quando, a Fort Maple, il Comandante aveva convocato nel suo ufficio i suoi due più fidi collaboratori.




2. L’inquietante messaggio

“Oggi mi sembri più funereo del solito, Sad Lynx… Non mi dirai che ti sei di nuovo messo a litigare con Black?”, azzardò Remington.
“Per tutte le magie del mio trisnonno stregone! Pensi che io possa sacrificare il mio onore di capo indiano in misere scaramucce con quel sacco di pulci ossuto?! Ugh! Mi meravigli, mio caro Remington! Vuol dire che dopo anni di comuni avventure ancora non mi conosci se…”
In quel mentre, spalancando la porta, irruppe Mister Riff.
“E’ proprio vero, per tutte le barbacce del Nuovo Mondo! Remington non ti conosce! Glielo hai detto per cosa stavate accapigliandovi tu e Black? E’ bene che tu lo sappia, caro Remington, per capire in quali abissi può spingersi la cattiveria umana!”
“Dunque?”, chiese Remington, sorridendo.
Mister Riff non si fece certo pregare. “Quando Sad Lynx aveva finito di spolpare il secondo dei galletti che si era fatti arrostire, Sally aveva pensato di gettare a Black la pelle avanzata dei due gallinacci. Orbene, sotto la rude scorza da selvaggio delle Americhe batte nel petto di Sad Lynx il cuore di un milord del Vecchio Continente: mai e poi mai ho visto questo indiano di nobili e vantate ascendenze mangiare la pelle di quello che aveva avuto la sfortuna di capitare fra le sue voraci ganasce. La pelle del pollo è troppo grassa… la pelle del tacchino è troppo dura… e così via. Una lamentela infinita! Ebbene… Sally prende la scodella di Sad Lynx e quando i saporiti bocconi sono già a portata di zanne del contentissimo Black, questa sottospecie di indiano si riprende il piatto e divora in quattro e quattr’otto quei resti, pontificando che le sostanze essenziali, come sosteneva il suo illustre antenato, erano tutte lì contenute e che sarebbero andate sprecate nello stomaco di un mangiaossa pidocchioso! Altro che Falco dell’Ontario! Un affamatore di cuccioli, ecco quel che sei!”
“Per Manitù! Come ti permetti, brutto pancione barbuto…?”




Trattenendo a stento una risata, Remington intervenne a ristabilire l’ordine.
“Ora basta, amici, altrimenti è inutile avervi fatto convocare con tanta urgenza!”
“Per mille barbacce infuocate! Stavo quasi per scordarmene! Dove dobbiamo andare?”
“Stavolta, cari amici, mi aspetta una missione in solitario... Affido a voi, finché dura la mia assenza, il comando di Fort Maple”.
“Ugh! La Corona ha forse deciso di mandare altre truppe fresche per mantenere in allenamento i nostri sganassoni?”
“Mmm… Anche se i sospetti sono forti non è certo che ci sia lo zampino delle Giubbe Rosse in questa faccenda… A cinquanta miglia da qui, oltre la grande Foresta di Aceri, c’è Timberton, un villaggio di patrioti, tirato su da onesti e forzuti taglialegna che vedono i gamberoni di Re Giorgio come fumo negli occhi! Finora il paese ha vissuto una vita tranquilla, tanto che gli inglesi non hanno messo nemmeno un presidio da quelle parti. Purtroppo mi è appena giunta notizia che da un paio di mesi si stanno verificando misteriose sparizioni di boscaioli e occorre che qualcuno vada a indagare sul posto. Ho pensato di spacciarmi per uno straniero giunto lì in cerca di lavoro…”
“Ma… non temi che qualcuno possa riconoscerti, Remington?”, domandò un preoccupato Mister Riff.
“Certo…”, continuò Remington, “sanno bene chi sono e conoscono a memoria le gesta dei Falchi, ma il mio volto lo hanno visto in pochi, a Timberton… laggiù ho fatto solo un paio di ricognizioni e mi è sembrato il luogo più pacifico della Terra: niente inglesi, niente guai! Mi sono confidato solo con l’oste dell’Oca Nera, la locanda del paese, un tipo quadrato e bravissimo nel tenere a freno la lingua. E’ Pat Remick, ma tutti lo chiamano Big Bear – Grande Orso – per la sua corporatura non proprio gracilina. E’ proprio lui che mi ha fatto giungere questo allarmante messaggio…”




Da una borsa di pelle Remington estrasse un plico e iniziò a leggerne il contenuto. “Carissimo amico, affido queste mie parole a un mercante di passaggio – uno dei nostri – con la precisa richiesta di fartele avere al più presto. Timberton è sempre stato un villaggio pacifico e sicuro per i suoi abitanti. Sapendo che il più debole di noi è alto due metri e abbatte con tre colpi d’ascia una quercia, le Giubbe Rosse si sono sempre fatte vedere malvolentieri dalle nostre parti e non abbiamo più avuto contatti con gli inglesi da quando il capitano Oswald Broomingham, un anno fa, fece capolino con i suoi sgherri. I gamberoni presero così tante legnate che l’eco si sente ancora oggi nei nostri boschi. Broomingham giurò vendetta ma tutti pensarono alla solita fanfaronata dei gallonati di Re Giorgio… Due mesi fa, però, è svanito uno dei nostri boscaioli e inutili sono state le ricerche. Era solo l’inizio… Oggi mancano all’appello ben sette cittadini di Timberton… Le sparizioni si sono fatte più frequenti e quelli che hanno famiglia stanno già preparando i bagagli. Di notte si sono viste vagare fra le case ombre inquietanti, e nella foresta si odono grida belluine che sembrano generate dal più profondo degli inferni! Ormai anche nei più coraggiosi comincia a insinuarsi il dubbio. Abbiamo bisogno di aiuto… di qualcuno che ci infonda nuovamente speranza e coraggio… di uno che abbia la tenacia del Falco Solitario… Firmato Big Bear!”
“Per tutte le barbacce di Belzebù! Anche se non ti nomina mai – immagino per motivi di sicurezza - è chiaramente un invito a te, Remington, e a te solo!”
“Ugh! Lo credo anch’io! Ma potrebbe rivelarsi una trappola, e per Remington si prospetterebbe la più funesta delle conclusioni…”
“Non dare retta a questo spennacchiato menagramo, Remington!”, intervenne Mister Riff. “Non possiamo correre il rischio che un paese di patrioti diventi una città fantasma!”




3. Arrivo a Timberton

Remington congedò i due amici, montò in groppa al cavallo più fresco del Forte e quella sera stessa arrivò a Timberton.
Il clima di paura era tangibile… dopo il tramonto nessuno osava più aggirarsi per le strette vie del paese e solo le finestre della locanda dell’Oca Nera, dalle quali traspariva una fievole luce, avevano gli scuri aperti. All’interno dell’osteria un unico avventore dormiva poggiando la testa su un tavolaccio di legno.
“Remington! Finalmente!”, gridò “Big Bear”, uscendo dalla cucina. Il cliente si destò e sollevò il capo, guardando assonnato il nuovo arrivato.
“Shhh!”, fece il Comandante circospetto, portandosi il dito indice davanti al naso. E appena fu a portata d’orecchio di Remick aggiunse sottovoce: “Niente nomi, Pat… sono qua in incognito. Per tutti sono semplicemente uno straniero in cerca di lavoro”.
“Ero talmente felice di vederti che mi sono fatto prendere dall’entusiasmo… e come devo chiamarti?”
“Sonner… Simon Sonner, ed è con questo nome che domattina mi presenterò alla Compagnia del Legno per essere assunto”.
“Ti stenderanno il tappeto rosso, visto che da qualche tempo solo pochi temerari – e i più bisognosi di soldi - se la sentono di andare a lavorare nei boschi”, gli confida Pat, “ma dovrai comunque guardarti da Sly Cornell, il caposquadra. E’ un brutto tipo… un attaccabrighe di professione…”
“Beh… saprò cavarmela, caro Pat!”
“Non ne dubito, Coman… Simon! Ma ora… sarai stanco! Ti preparo subito la stanza più comoda dell’Oca Nera… ti troverai di certo a tuo agio!”




4. Che fine ha fatto Frank Carter?

I giorni seguenti, nonostante l’aria triste e cupa che pesava su Timberton e sulla foresta come una cappa di piombo, scivolarono via tranquilli.
Come aveva predetto Big Bear, Remington fu assunto senza troppe domande alla Compagnia del Legno e fece amicizia con Daniel Buster, un taglialegna stagionale che alloggiava come lui alla locanda di Remick; il Comandante ebbe modo di conoscere anche Sly Cornell, l’insopportabile, arrogante caposquadra, un bruto tutto muscoli che non esitava a sfoggiarne la potenza alla minima occasione. Il tipaccio aveva subito inquadrato Remington come un gran lavoratore, ma non lo sopportava perché questo Simon Sonner era l’unico capace di tenergli testa anche nelle più animate discussioni, dove volavano randelli e sganassoni. Ma Cornell, di quei tempi, non era certo il problema principale della gente del luogo.
Durante la pausa per il pranzo Buster – un omaccione capace di divorarsi un mezzo capretto arrosto alla volta – aveva preso l’abitudine di confidarsi con Remington, e discorrendo gli spiegò che il momento più pericoloso era quello prossimo all'imbrunire, quando i boscaioli stavano per tornare in paese: tutti quelli che mancavano all’appello erano scomparsi poco prima della fine della giornata lavorativa e l'intervallo di tempo fra una sparizione e l'altra si stava sempre più assottigliando.




Erano ormai passati cinque giorni dalla partenza da Fort Maple. Mentre Remington stava lavorando d'ascia nella sua zona, attigua a quella di Daniel, sentì un urlo raccapricciante provenire dal settore del collega Frank Carter, un buon uomo, il più anziano del gruppo, ma ancora forte come una roccia. Anche Daniel aveva udito e con Remington accorse verso il punto da dove si era levato il terribile lamento. Insieme a loro arrivò anche Sly ma non trovarono nessuno; in terra c'era solo l'ascia di Frank... con l’impugnatura macchiata di sangue!
Lo sconforto più nero si abbatté di nuovo sui superstiti della Compagnia del Legno e solo Remington – con parole di coraggio e di speranza – e Sly – con la promessa di un aumento della paga giornaliera – riuscirono a riportare la calma e a evitare il fuggi fuggi generale.
Il Comandante, però, cominciò a sentire puzza di bruciato: mentre tutti erano affranti per la scomparsa del bravo Frank, gli sembrò di scorgere sul volto di Cornell l’ombra di un diabolico ghigno…
Quando il sole era diventato un rossa palla di fuoco all’orizzonte i boscaioli si incamminarono silenziosi sul sentiero che riportava in paese e solo Sly restò nel bosco, nel capanno che fungeva da ufficio, per sbrigare, come tutte le sere, conti e altre scartoffie.




5. La strana stoffa

La mattina seguente, prima di iniziare a tagliare, Remington tornò da solo indagare laddove lavorava Frank.
“E questa, cos’è?”, si chiese il Comandante dei Falchi dell’Ontario, staccando un pezzo di uno strano materiale che svolazzava impigliato in un ramo - un brandello di una stoffa dai bizzarri colori che si confondevano con le tonalità del bosco. Remington, in vita sua, non aveva mai visto niente di simile. “Certi animali cambiano il loro manto per nascondersi meglio nell’ambiente dove vivono”, rifletté Remington, “ma non avevo mai sentito di abiti confezionati in tale maniera… A meno che qualcuno non voglia giocare un brutto tiro al prossimo, sorprendendolo di colpo senza essere visto prima di essere già addosso alla vittima! Sarei pronto a scommettere che i rapitori indossano speciali divise confezionate con questo tessuto!”




6. Scompare Daniel

Più tardi, verso la fine della giornata, anche Daniel scomparve nel nulla. Remington sospettava già quale poteva essere il modo in cui avvenivano le sparizioni e – dopo aver finto di tornare in paese insieme agli altri - si appostò non visto nei pressi del punto in cui lavorava l’amico Buster.
Dopo che i boscaioli se ne erano andati passò del tempo senza che niente succedesse. Con la notte il freddo cominciava a mordere il volto del Comandante. A un tratto apparve Sly con una lanterna in mano. Tenuto d’occhio da un attento Remington, il caposquadra si diresse a colpo sicuro verso un punto ben preciso e da sotto un telo cucito con la stoffa mimetica e poi ricoperto di foglie e arbusti tirò via trascinandolo per i piedi un uomo, apparentemente senza vita.




“Grande Scott! E’ Daniel!”, pensò Remington. “Voglia il Cielo che non sia stato ucciso altrimenti Sly maledirà il giorno in cui è nato!”
Ma proprio in quel momento, quando Remington stava quasi per schizzar fuori dal suo nascondiglio, Daniel gemette. Il fido boscaiolo respirava ancora!
Sly sembrò non far caso al lamento di Daniel e, come se non pesasse niente, si caricò in spalla l’omaccione e si incamminò verso il magazzino, tallonato a debita distanza da Remington.
Arrivato nel capanno, che fungeva da deposito attrezzi e da segheria, Sly scaricò pesantemente il suo fardello umano. Daniel, scosso dalla botta, cominciò a riaversi. Ma Sly non perse tempo: estrasse da un panno una fialetta di vetro piena di liquido rosso e la versò nella bocca di Daniel. Il boscaiolo tossì e sputacchiò un po’ di liquido… e in un attimo si accasciò.
“Un potentissimo sonnifero”, commentò Remington fra sé e sé. “Il povero Daniel è tornato nel mondo dei sogni nel giro di un secondo!”
Assicuratosi che la vittima aveva perso i sensi, Sly sollevò Daniel per infilarlo in un lungo tronco cavo.
“Sarà con questo che arriverai a destinazione, caro Daniel! E poi… ah ah ah!” La diabolica risata risuonò forte nella segheria.
Quando il caposquadra si allontanò per un attimo dal tronco, Remington non perse tempo e si infilò dentro anche lui.
Per un pelo! Sly tornò dopo un minuto portando due pesantissime e nodose sezioni circolari di tronco. Con pochi, rapidi ed esperti gesti, il vile caposquadra inchiodò ai due estremi dell'albero - a mo' di tappi – i dischi di legno: nessuno, a prima vista, avrebbe mai detto che si trattava di un tronco cavo e che al suo interno c’erano due uomini!
Preso un ferro appuntito Sly incise così sulla corteccia una "X" e la località d'arrivo: Wendover / Fort King George. Poi il silenzio e Remington si rassegnò a dover passare un bel po' di ore in quella scomoda posizione.




7. Il viaggio

La mattina dopo il tronco cavo con Remington e Daniel venne issato su un carro insieme ad altri tronchi: grazie ad alcune fessure Remington riuscì a intravedere qualcosa. E vide anche i suoi colleghi taglialegna. Forte fu la tentazione di gridare per avvertirli, ma per risolvere il mistero delle persone scomparse occorreva andare fino in fondo! Dopo un breve tragitto (il Comandante calcolò che non potevano essere passate più di tre ore), il carico venne depositato presso un magazzino di smistamento a Wendover, in un territorio ancora sotto il totale controllo degli inglesi. Nemmeno le scosse e gli sballottamenti del viaggio bastarono a svegliare Buster, ancora sotto gli effetti del potente sonnifero.
I tronchi con incisa sopra la destinazione di Fort King George vennero messi su un carro più piccolo. Ascoltando con attenzione attraverso le fessure del legno, un Remington sempre più dolorante venne così a sapere che a venti miglia da Wendover, le Giubbe Rosse stavano costruendo un nuovo fortino e avevano bisogno di parecchio legname. Il carro arrivò a destinazione in tarda serata.




8. Alla locanda dell’Oca Nera

Intanto a Timberton, era giunta la fine di un'altra dura giornata di lavoro e Sly si era insospettito: Simon Sonner non si era presentato al lavoro e nessuno sapeva che fine avesse fatto! Cornell era al corrente che Sonner alloggiava all’Oca Nera, nella stanza sul retro, e non esitò nottetempo a intrufolarsi furtivamente nella camera di quello che per lui era solo un arrogante e insopportabile novellino. Ma nella sua posizione Sly non poteva permettersi il minimo errore. “Altrimenti”, pensò, “il piano andrebbe gambe all’aria!”
Una rapida perquisizione e Sly mise le mani sulla lettera che l’oste della locanda aveva inviato a Remington.
“Per l’inferno!”, esclamò un furibondo Cornell. “Quel Sonner è venuto qua per ficcare il naso nei nostri affari! Mi chiedo chi diavolo possa essere… certo non un taglialegna… Sicuramente è una spia dei dannati ribelli!”
Sly non aveva la certezza di dove fosse andato a cacciarsi quel Sonner, ma decise comunque che all’alba sarebbe partito per Fort King George, galoppando ventre a terra. Il pericolo era troppo grande. Per un giorno i boscaioli di Timberton avrebbero fatto a meno del loro caposquadra.




9. I mostri

Non sentendo più nessuna voce da qualche minuto Remington decise di uscire dal tronco e sferrò un doppio calcio al tappo di legno facendolo saltar via. Scivolato fuori si accorse di essere in un magazzino non dissimile da quello dei boschi di Timberton. Mentre il Comandate stava per togliere da quella scomodissima situazione anche il povero Daniel, una porta si aprì ed entrarono due figure con un lume. Remington fece appena in tempo a nascondersi dietro una fascina di rami tagliati.
I due individui – che erano vestiti da capo a piedi con una divisa fatta della stessa stoffa che Remington aveva trovato dove era scomparso Frank - avvicinatisi ai tronchi, si accorsero subito che uno dei tappi era caduto ma si rassicurarono quando scoprirono che il rapito era ancora dentro. Da un altro tronco segnato con una "X" tirarono fuori proprio Frank, ormai cadavere. Dai commenti dei due Remington capì che il disgraziato taglialegna era morto perché gli era stata fatta ingurgitare una dose troppo forte di sonnifero (era stato rapito il giorno prima di Daniel e perciò doveva dormire più a lungo). Remington rischiò di esplodere dalla rabbia.






I due, seguiti da Remington come un’ombra implacabili, portarono Daniel in un sotterraneo. Ad attenderli c'era una persona piuttosto anziana con un camice che i due salutarono come Dottor Nathaniel Broomingham. Remington si ricordò subito di quel tristo figuro: era un medico inquadrato nell'esercito di Re Giorgio ed era nientemeno che il fratello maggiore del Capitano Oswald Broomingham, che tante legnate aveva beccato dagli abitanti di Timberton; circolava la voce che il Dottor Nathaniel avesse combinato qualcosa di orrendo con una tribù d'indiani, la quale, sconvolta dall'ira, aveva assalito e bruciato il forte dove Broomingham esercitava. Numerose Giubbe Rosse erano morte e la tribù era stata in seguito sterminata. Tutto era stato messo a tacere con l’espulsione di Broomingham dall’esercito inglese.
Daniel, che cominciava a riprendersi dagli effetti del potente sonnifero, venne adagiato su un tavolaccio di legno e legato strettamente polsi e caviglie con degli spessi lacci di cuoio.




“Bene, bene, bene!”, disse Il Dottor Broomingham sfregandosi le mani. “Il soggetto è ben forte, come tutti i patriottici boscaioli di Timberton, e reagirà ottimamente all'ultima versione del mio siero modificatore!”.
Poi il dottore e i suoi sgherri se ne andarono col proposito di riprendere il lavoro la mattina seguente. Il portone del laboratorio, pesantissimo e semi-blindato, venne chiuso con molte mandate di chiave.
Remington era rimasto chiuso dentro, celato nel suo nascondiglio di fortuna.
“Forza Daniel! Non c’è un momento un da perdere! Ho una gran paura che questi pazzi stiano per combinare qualcosa davanti al quale lo stesso Belzebù arriccerebbe il naso!” E così dicendo Remington si apprestò a slegare l’amico taglialegna, che ormai si era ripreso del tutto dalla pozione sonnifera. I due iniziarono a pensare a un piano per evadere e si misero a cercare qualcosa per forzare il portone del laboratorio.
“Vorrei dirti una cosa, amico mio… e questo mi sembra il momento giusto, perché credo che ormai siamo vicini alla soluzione del caso”, disse Remington mentre frugava dietro un sacco di trucioli di tronco. “Il mio vero nome non è Simon Sonner. Mi chiamo Remington e qualcuno ha voluto affibbiarmi il titolo di Comandante…”




“Per tutti gli aceri del Canada!”, esclamò allibito Daniel. “Il Comandante Remington dei Falchi dell’Ontario! Non mi dirai che il più grande patriota d’America ha deciso di cambiar mestiere? Non vorrai per caso metterti a spaccar legna invece che teste inglesi?”
“Niente di tutto questo”, fece Remington accennando un sorriso. “Sono venuto a Timberton per indagare sulle sparizioni dei tuoi colleghi… e come al solito c’è lo zampino dei sudditi in divisa di Re Giorgio!”
Nel stanza Remington e Daniel non riuscirono a trovare nulla di adatto per forzare il portone – un piede di porco, una mazza di ferro… Dentro a un pesante armadio in massello i due scovarono degli alambicchi per distillare strani liquidi. E all’interno dell’armadio, un pannello scorrevole si aprì su un nuovo ambiente, angusto e fiocamente illuminato da una torcia infilata in un supporto metallico del muro. Al Comandante Remington sembrò di scorgere a poca distanza qualcosa che si muoveva, emettendo un rumore strascicato.
“Grande Scott! Se questo non è l’inferno poco ci manca!”, esclamò il Comandante. “Vediamo di fare più luce”!
Quando Daniel trovò e accese una seconda torcia l’orrore più nero si rivelò agli occhi dei due in tutta la sua tragedia: lungo una parete erano allineate tre gabbie formate da massicce sbarre di ferro e in ognuna di quelle celle c'era un mostro tremendo, dall'aspetto deforme e vagamente umano. Nei tratti di una di queste tristi creature Daniel credette di scorgere Josh, uno dei boscaioli rapiti. Infastiditi dalla luce gli esseri, chiaramente sofferenti, cominciarono a ululare e a emettere lamenti sempre più forti.




Insospettiti dai versi delle creature Il Dottor Broomingham e i due suoi più fedeli sgherri scesero nel sotterraneo dove si trovava il laboratorio vero e proprio e l’anticamera con il tavolaccio di costrizione. Remington e Daniel erano inermi e allo scoperto.
“Prendete quei due”, fece il Dottor Broomingham ai suoi tirapiedi, armati fino ai denti con pistole e sciabole.
“Dannati inglesi! Questi poveri esseri ingabbiati… un tempo erano i miei amici boscaioli, vero?”, intervenne Daniel. “Ma perché, in nome di Dio?”
La domanda del taglialegna rimase inevasa: Remington e Daniel vennero afferrati e legati come salami. In quel preciso istante il Comandante si pentì di aver lasciato Fort Maple disarmato, avendo pensato che, per dare un aspetto più innocuo al personaggio di Simon Sonner, era meglio non portare pistole infilate nel cinturone.


10. La storia del Dottor Broomingham

“Mi hai chiesto perché, stupido boscaiolo?”, urlò in faccia a Daniel il perfido Broomingham. “Beh, visto che tra poche ti interesserà solo combattere per l’Inghilterra ai miei ordini, non vedo come mai non dovrei soddisfare questa ultima tua curiosità di spregevole rivoltoso… Quand'ero dottore dell'esercito, grazie alla mia laurea in scienze mediche e chimiche ottenuta nell’immortale ateneo di Oxford, avevo deciso – senza avvertire i miei ottusi superiori – di condurre degli esperimenti su alcuni di questi primitivi selvaggi che infestano le nostre Colonie. Con un siero di mia invenzione miravo a trasformare un essere umano in un super-soldato, rispettoso della discplina militare, invincibile in guerra, resistente alle ferite di arma da fuoco e da taglio e capace di braccare il nemico per giorni interi in qualsiasi luogo.




“Follia pura!”, esclamo Remington, rimediando un pesante sganassone sferrato da uno dei guardaspalle dello scienziato.
“Spero che non ci siano più interruzioni da parte… del Comandante Remington!”, riprese il Dottor Broomingham, sorprendendo i due amici. “Già! Credevi che non ti avessi conosciuto, arrogante Falco dell’Ontario? Mio fratello Oswald mi ha descritto così tante volte il tuo aspetto e le tue bravate che il tuo ritratto mi si è scolpito in testa come nel marmo!”
“Sapere chi sono, non ti salverà, dannato cervello bacato”, rispose Remington, buscando un altro ceffone.
Ma il dottore stavolta finse di ignorarlo e continuò la sua storia: “Ero sicuro che una volta ottenuto un buon risultato i miei meriti sarebbero stati riconosciuti dalle alte gerarchie e che non avrei più dovuto lavorare di nascosto. Ma poi scoppiò… l’incidente con la tribù di Corvo Tonante… alcuni giovani pellerossa si intrufolarono nel mio laboratorio segreto celato nel forte dove esercitavo come ufficiale medico e scoprirono alcuni loro compagni in fase avanzata di trasformazione. Quei selvaggi, mossi da pietà, uccisero le mie preziose cavie e diedero fuoco a tutto. Fui espulso… e solo un insperato aiuto del Destino mi permise di scampare la forca… Non esistevano prove materiali di quelle che potevano essere colpe gravi agli occhi di una corte marziale in quanto l’incendio appiccato dagli indiani, alimentato dai prodotti chimici, aveva incenerito tutto. E inoltre era interesse dell'esercito mettere tutto a tacere. I Coloni, all’epoca, non erano scalmanati come adesso e gli alti gradi preferirono non far trapelare notizie che potessero creare – dissero – degli scontenti. Fu data la colpa dell’incendio agli indiani e la tribù di Corvo Tonante fu sterminata.






Tornai in Inghilterra a riprendere i miei studi… Poi, inaspettatamente, mio fratello mi mandò a chiamare, dicendomi che i tempi erano cambiati e che l’esercito non avrebbe più ostacolato – ma anzi agevolato – i miei esperimenti per poter soffocare una volta per tutte la ribellione contro la Corona! Oswald mi suggerì di usare Timberton come allevamento di cavie… servendomi di Sly Cornell come contatto, un brutto ceffo, capace di uccidere sua madre per un pugno di monete! Timberton, un paese infestato come pochi da sedicenti patrioti! Gente rude e forte, adattissima a far parte del futuro super-esercito di speciali Giubbe Rosse! I primi boscaioli rapiti hanno avuto la loro dose sul posto – un siero ancora instabile che ha trasformato solo in parte quegli uomini. Ci sono sfuggiti e ancora adesso staranno vagando dalle parti di Timberton, innocui e completamente senza cervello, incapaci di ricordarsi chi siano. Forse un giorno daranno vita a leggende di strani esseri dei boschi… Ma adesso sono molto vicino al risultato finale, e sarete proprio voi due ficcanaso a provare gli effetti della definitiva versione del mio straordinario siero!”
Ridendo come un pazzo Broomingham spegne le torce e se ne va con i suoi sgherri lasciando Remington e Daniel da soli con i loro pensieri.




11. Sly Cornell

All’alba il perfido Sly lascia Timberton e si lancia al galoppo verso Fort King George, contando di arrivare in mattinata ed è proprio quando il caposquadra dei taglialegna – traditore dei suoi stessi colleghi – giunge a destinazione che il Dottor Broomingham, accompagnato dalle due guardie del corpo scende nel laboratorio.
Il folle scienziato estrasse lentamente da un rigido astuccio di pelle foderato di velluto rosso una siringa piena di siero.
“Come ha potuto un uomo di scienza commettere simili crimini?”, chiede il Comandante Remington, “mettendosi oltretutto in combutta con dei tipi loschi come Sly?”
“In nome della Scienza tutto è permesso”, ribatte Broomingham. “Quanto a quell’idiota di Sly… E’ solo una pedina sacrificabile: lo farò massacrare da uno dei miei super-soldati al termine delle ricerche… in questo modo proverò la forza reale delle mie creature e non dovrò dividere la gloria con nessuno! Ah ah ah!”
Sly, che aveva sentito tutto dall’anticamera, irruppe nel laboratorio sparando e lanciando terribili invettive contro il Dottor Broomingham. I due sgherri del dottore caddero subito sotto i colpi di Sly, mentre il Dottor Broomingham corse verso i suoi mostri. Tirando una leva aprì le gabbie e le creature si precipitarono fuori, urlando come dannati e correndo aggressive verso Sly. L’orrore disumano che una volta era stato Josh si diresse invece verso Daniel e Remington.




“Da… niel!”, disse l’essere con voce incerta.
“Amico mio!”, fece Daniel. “Allora… quel siero non è riuscito ad annullare del tutto i tuoi ricordi!”
Sly era riuscito a prendere le armi dei due tirapiedi che aveva freddato qualche istante prima. Tre pistole ancora cariche e una sciabola! Anche i due mostri che lo minacciavano furibondi caddero sotto il piombo di Cornell. Rimaneva un solo proiettile e con quello Sly centrò il Dottor Broomingham in pieno petto. Lo scienziato cadde a terra.
Daniel riuscì a convincere Josh a sciogliere i legacci che lo imprigionavano, e una volta liberato il boscaiolo si alzò e slegò Remington. I due fecero appena a tempo a gettarsi al riparo che Sly, con una fumante torcia in mano, cominciò ad appiccare il fuoco. Poi, con la spada, trafisse mortalmente il povero Josh, trapassandogli un polmone.
“Ah! Questi straordinari e tanto decantati super-soldati del Dottor Broomingham!”, ironizzò Sly. “Non erano poi tanto super, visto che cadono come mosche al primo colpo! Ah ah ah!”




12. Il Dottor Broomingham si trasforma

Il Dottor Broomingham, ormai morente, sente come in un incubo le risate di Sly riguardo ai suoi esperimenti. Con le ultime forze, animato da uno spirito di rivalsa, si iniettò nel braccio sinistro il siero con la siringa che non aveva mai smesso di stringere nel pugno. Con immenso dolore lo scienziato cominciò a trasformarsi; gli arti e il petto gli si coprirono di peli e i muscoli gli stracciarono i vestiti; la grave ferita al petto gli guarì come per incanto.
Mentre il fuoco stava divampando Sly – ignaro di quello che lo aspettava - si mise a cercare Remington e Daniel. Un momento prima di scovarli il Dottor Broomingham gli fu alle spalle, trasformato in una specie di gigantesco Wendigo, il demone silvano della mitologia indiana. Broomingham afferrò Sly e con un'unica mossa gli spezzò la schiena.
Remington e Daniel riuscirono a fuggire attraverso l’armadio e si chiusero dietro il pesante portone dell’anticamera.
Mentre i due stavano salendo le scale a tre gradini alla volta il mostro iniziò a sfondare a mani nude il legno blindato giurando che li avrebbe trovati, anche a costo di battere palmo a palmo l’intero Nuovo Continente.
Remington e Daniel uscirono dal lugubre sotterraneo e si allontanarono di soppiatto dal forte in costruzione, protetti dall’incendio che si stava rapidamente sviluppando. Fra gli uomini del Dottor Broomingham regnava il panico.




13. L'ultima battaglia del Dottor Broomingham

Il rombo delle acque tumultuose del Rebel’s Creek riportò Remington al presente.
“Ora ricordo!”, pensò il Comandate guardando dalla base di una ripida scarpata pietrosa che saliva dalla riva del torrente. “Fuggendo da Fort King George ci eravamo presto accorti che – scartato il covo inglese di Wendover - Fort Maple era più vicino di Timberton, tagliando per la foresta. Tempo dopo, quando da ore eravamo già nel folto della boscaglia, abbiamo sentito il mostro che una volta era Broomingham gridare da lontano i nostri nomi! Abbiamo accelerato l’andatura e poi siamo precipitati da lassù… Dev’essere stato un bel ruzzolone e battendo la testa in quelle pietre siamo partiti per il mondo dei sogni!” Remington svegliò Daniel, dicendogli che occorreva continuare la marcia. Fort Maple non era lontano.
Passarono le ore e quando il quartier generale era già a portata di mano, alla fine di un sentiero battuto mille volte dai Falchi dell’Ontario, dall'alto di una roccia arrivò potente una voce cavernosa.
“Congratulazioni, Comandante Remington! Eri quasi riuscito a metterti in salvo con il tuo protetto! Ma non avevi fatto i conti con i miei nuovi sensi, sviluppati come quelli del Falco e del falco!”
I due alzarono la testa sconcertati e scoprirono era stato il Dottor Broomingham a parlare, imponente nella sua mostruosità. Con un poderoso balzo l’essere piombò giù, bloccando il sentiero che portava alla salvezza. Daniel, che ormai pensava di essere al sicuro, impazzì dalla rabbia e si scagliò contro il mostro. La creatura gli afferrò fulmineo la gola con una mano e lo tenne sospeso mezzo metro da terra, ridendo. Poi, quando il boscaiolo esalò l'ultimo respiro, Broomingham ne scagliò via il corpo. Il mostro si voltò allora verso Remington, ma il Comandante era sparito.




“Per Daniel e per l’America, dannato demone dell’Inferno!”
Le terribili parole gridate a squarciagola fecero trasalire l’essere gigantesco: Remington, reggendo fra le mani una pietra acuminata gli si era lanciato addosso dalla stessa roccia sulla quale Broomingham era apparso ai due amici in fuga. Grazie al peso del proprio corpo Remington colpì a fondo il mostro, spaccandogli la testa. Un grido disumano risuonò nella foresta.
A Fort Maple Black ululò e abbaiò e i suoi guaiti non sembravano smettere mai.

FINE


Personaggi principali

Il Comandante Remington, che agisce sotto le mentite spoglie di Simon Sonner
Pat “Big Bear” Remick, l’oste dell’Oca Nera
Daniel Buster, un boscaiolo che viene rapito
Sly Cornell, caposquadra dei boscaioli e "contatto" dei rapitori
Il Capitano Oswald Broomingham, ufficiale delle Giubbe Rosse
Il Dottor Nathaniel Broomingham, lo scienziato folle creatore dei mostri, fratello di Oswald, al servizio di Re Giorgio

Francesco Manetti